L'accelerazionismo foodificante

26.05.2020

“Crisi significa opportunità”: quante volte l’avete sentito nel corso del lockdown?


E quanti accorati appelli all’ uscire ”diversi” da questa crisi avete letto?

Tutti abbiamo sperato che il dramma pandemico ci spingesse a pensare “out of the box” e magari immaginare una città con priorità realmente diverse, che metta al centro concetti rivoluzionari come  “spazio pubblico” e “rapporto con la natura”.
La natura che torna a respirare e colorarsi di verde acceso, i nostri fiumi più limpidi e le strade e i parchi che tornano, ai primi allentamenti del lockdown, ad “essere camminati” e in qualche modo vissuti dai cittadini sembravano l’inizio di un mondo nuovo: non solo perché sostanzialmente privo di macchine, ma per la riappropriazione di per sé delle strade, senza alcun fine economico-consumistico se non quello sociale teso al vivere e condividere lo spazio urbano.

 

 

Nel mondo pre-COVID il nostro collettivo si iscriveva al movimento sempre più vasto di critica alla mono-cultura turistica delle nostre città, una economia che è stata di colpo azzerata per ovvi motivi e che ha dimostrato a tutti la propria fragilità strutturale: possiamo pensare ancora alle nostre città e ai centri storici come una Disneyland per attrarre cittadini stranieri?

 

Se i dati relativi ai fallimenti delle attività commerciali e di ristorazione erano già drammatici a dicembre 2019*, non osiamo immaginare quale piatto triste ci proporrà il prossimo Rapporto Rota su Torino: ne avremmo fatto volentieri a meno, ma forse davvero la pandemia potrebbe diventare una opportunità in termini urbanistici.

 

Che le città mono-culturali dal punto di vista economico non funzionino ce lo spiega in maniera esemplare l’accorato appello di Nardella, Sindaco di Firenze: “senza stranieri, rischiamo di non riuscire ad accendere neanche le luci dei musei e degli uffici comunali della Città.” 


Ed è stato proprio il più insospettabile tra i Sindaci italiani il primo ad aprire un dibattito relativo al ri-orientamento economico della città verso fabbriche, centri di ricerca e tecnologia negli stessi spazi ove fino all’altro ieri rollavano i trolley del turismo mordi-e-fuggi.

 

È IlSole24Ore a dirci che possiamo scordarci gli attuali livelli di PIL turistico fino al 2023, con previsioni leggermente più ottimistiche per la nostra Torino che vive maggiormente di visitatori nazionali che internazionali (ovviamente limitati dalle restrizioni ai voli). 

 

Non ci illudiamo troppo però, perché è il maitre a penser buono per tutte le stagioni, Oskar Farinetti, a indicare la via per il futuro:

“Bisogna sfruttare al massimo gli spazi esterni. Da un po’ di giorni Sto lanciando questa idea che

 l’Italia deve diventare un grande dehor…

bisogna che i Sindaci ci concedano le piazze, le vie pedonali, non ci facciano pagare se possibile il plateatico per quest’anno perché a mangiare esternamente hai zero rischi, e per gli spazi interni ci terremo molto larghi. No guanti ma lavarsi spessissimo le mani.”

 

Se questa “timida” richiesta non vi basta, ecco la prosecuzione del ragionamento:

“In 5 anni di lavoro fatto bene possiamo raddoppiare il numero di turisti stranieri in Italia, vuol dire 100 miliardi di euro di soldi freschi ogni anno, possiamo raddoppiare le esportazioni delle nostre eccellenze (80 miliardi freschi). Siamo un Paese dove tutto il mondo chiede le nostre meraviglie. Bisogna portare i turisti nella provincia italiana!”

 

Nulla di nuovo, è la semplice riproposizione del suo vecchio “trasformiamo l’Italia in un gigante villaggio turistico”: la questione è che, oggi come ieri, ahimè è Oskar il faro da seguire, tanto per i nostri amministratori pubblici quanto per i suoi epigoni.


Umberto Montano segue a scia e scrive un lungo articolo sul Gambero Rosso per chiedere sempre le stesse due cose: aiuti statali (ah che bellezza il capitalismo nostrano) e lavoratori muti (ecco, qui il capitalismo lo riconosciamo di più). 

 

 

Inutile dirvi che, tra la crisi che si trasforma in opportunità di innovare i modelli economici cittadini, e la crisi che diventa un semplice STOP-AND-GO della città turistica la coppia Appendino&Sacco ha scelto la seconda (vecchia) strada: è datata 28 aprile la delibera di Giunta che rilancia il nuovo concept store di Farinetti.
Si tratta di Green Pea, nascerà a breve nello spazio “avanzato” dalla vecchia concessione di Chiamparino su cui è sorto Eataly e ancora una volta l’attore pubblico si trasforma in megafono gratuito dell’iniziativa privata (già alimentata dalla concessione gratuita di cui sopra): il “super store della sostenibilità ambientale” vanta tra i suoi punti di forza la mobilità sostenibile con FCA e una “zona leisure” che comprende ovviamente ristorazione e “zona relax dal concept innovativo” (lo storytelling è rimasto immutato e immune alla pandemia).

 

Un format innovativo e unico nel suo genere che nasce dalla consapevolezza che il futuro del pianeta dipende dalle scelte che saranno assunte nei prossimi anni, dalla produzione al consumo finale dei beni” è una delle frasi incensatrici che il documento dell’ Amministrazione torinese utilizza nel suo incipit, per arrivare all’ apoteosi del “pensare-come-al-solito” (Cit.Semi): “Il progetto vede la presenza di aziende tra le più green e innovative italiane e straniere con un’aspettativa di circa 3 milioni di visitatori l’anno.”

 

Con che coraggio riescono a scrivere in pieno lockdown, con fosche previsioni sul futuro dei voli internazionali e del turismo di massa, una delibera promozionale dell’idea di Farinetti perché attirerà TRE-MI-LIO-NI-DI-TU-RI-STI (ironicamente lo stesso numero era previsto nel desertico FICO)?

 

IL NUOVO VECCHIO MODELLO DI TURISMO COMMERCIALE DI SACCO

 

Tornando a “l’Italia deve diventare un grande dehor” uno dei più pronti a rispondere “PRESENTE” è stato sempre lui, la nostra guest star della mondanità sabauda, con una delibera accolta favorevolmente dal PD torinese (avevate dubbi a riguardo?):

 

 “Si ritiene estremamente importante consentire, in via straordinaria e temporanea, che quante più possibili attività economiche possano trovare nel suolo pubblico antistante il proprio esercizio la possibilità di ampliare la superficie destinata alla clientela.”

 

Questo perché “la finalità del pubblico interesse di promuovere il rilancio dell’economia cittadina, la presenza di una utilità sociale correlata ad aumentare per la cittadinanza la possibilità di usufruire dei servizi offerti dal tessuto commerciale, la previsione delle ricadute positive per la città giustificano l’esenzione totale del canone per le occupazioni straordinarie e temporanee di cui sopra.”

 

Insomma, dehor gratis per tutti e spazio pubblico a disposizione pressoché totale del privato, il tutto condito dalla retorica sulla semplificazione e sburocratizzazione dell’Amministrazione. Un modello di sviluppo post-COVID tutto orientato al commercio (non a caso Sacco è, o resta, l’uomo immagine dell’Amministrazione torinese) e al consumo estetico di torinesi e immaginari turisti: 

 

“Lavorare a politiche di marketing territoriale che vedano l’artigianato e il commercio e i loro prodotti come componente del patrimonio culturale della Città” 

Ora, in un momento come questo, viene difficile opporsi all’unanime consenso che riscuote la vision della città dehorificata

 

 

E nessuno è talmente ingenuo da volersi contrapporre all’ aiuto economico a un settore tra i più colpiti dalle chiusure forzate. Restano però alcune perplessità che qualcuno dovrà pur esprimere.

La domanda più ovvia per la foodification democracy è la seguente: oltre all’aiuto temporaneo (per quanto in Italia non vi sia nulla di più permanente di una norma provvisoria), era davvero necessario perseguire lo stesso fallace modello turistico-commerciale, al punto di arrivare a proporre “nuovi strumenti per la promozione del commercio e della ristorazione locale”? Qualcuno pensa davvero che il problema delle piccole attività sia la scarsa conoscenza o l’ insufficienza del servizio di somministrazione in città?

 

Come se non bastasse, le uniche, leggere, critiche al provvedimento emerse in Consiglio Comunale richiedevano ancora più liberismo (la Tatcher stava ballando sulla propria tomba): 60 metri quadri erano troppo pochi, e forse bisognerebbe chiudere più di un occhio di fronte a eventuali irregolarità sulle nuove installazioni.

 

E preferiamo censurare la consigliera di maggioranza che blaterava di “beni comuni” in riferimento ai dehor o discettava di “pedonalizzazioni naturali” degli spazi.

 

Avremmo preferito udire una riflessione a riguardo della sottovalutazione dell’aspetto sociale prediligendo quello economico, proprio dopo due mesi durante i quali sono risultati evidenti le necessità di spazio pubblico ove il cittadino potesse semplicemente e naturalmente camminare, sedersi su una panchina, giocare con i figli o leggere un libro.

 

E, a proposito di aspetti sociali, inutile aggiungere che non sono state prese in considerazioni le periferie e il diverso effetto che il COVID19 ha avuto sui nostri quartieri (no, non è stato un virus democratico): esse sembrano ormai destinate a fungere da riserva di manodopera per il centro città e nulla più.

 

Fa specie dover notare che nessuno abbia colto le differenze sociali insite in questo provvedimento: chi viene tagliato fuori dalla dehorification dello spazio pubblico privatizzato? 

 

Certamente i poveri, che non possono più permettersi di sedere a un tavolo a consumare, ma anche gli stranieri che troppo spesso subiscono un doppio meccanismo d’esclusione.
A questi si aggiungono coloro che semplicemente non vogliono consumare in un dehor. 

 

 

Da non trascurare inoltre l’equivoco più grosso insito in questo provvedimento: la confusione tra pedonalizzazione (“Chiusura totale o parziale di una zona cittadina al traffico veicolare” secondo il dizionario Sabatini Colletti) e attività commerciali, o meglio la loro totale sovrapposizione. Fa sorridere leggere le slide dell’Assessorato che nel paragrafo appunto “Pedonalizzazioni” (vd.immagine) esordisce con la proposta di ristorazione all’aperto. Il pedone è consumatore, altrimenti non è.

 

 

Eppure, la storia delle pedonalizzazioni ci insegna che il loro successo consiste nel coinvolgimento dei cittadini, nell’invogliarli a tornare sempre in quelle aree, nel trovarle utili, ben strutturate e nel sentirle un proprio spazio dove poter passeggiare, stare all’aperto, portare i propri figli e creare un legame con la cosa pubblica, che li porterà ad averne cura, rispetto e ad impegnarsi per migliorarle continuamente.”

Ed è indubbio che uno degli effetti benefici e auspicabili delle pedonalizzazioni sia quello di stimolare il commercio, ed evviva i negozi di vicinato da sostenere sempre e comunque rispetto a centri commerciali e piattaforme digitali (che hanno trionfato definitivamente durante questa pandemia): non dimentichiamo però che si tratta di un rapporto causa-effetto, e il primo obiettivo di una tale azione dovrebbe essere l’ambiente e la riappropriazione dello spazio pubblico sottratto all’automobile, non una sua privatizzazione.

 

ELEFANTE NELLA STANZA: CHI CASPITA VA AL RISTORANTE?

 

L’interrogativo più grande e forse maggiormente sottovalutato dell’intera questione riguarda la effettiva capacità di consumo che i cittadini torinesi avranno al termine della crisi. A livello nazionale è stato annientato un terzo della produzione industriale, il dato più basso mai realizzato da quanto l’ ISTAT fa raccolta statistica.6
A livello locale, è già drammaticamente evidente il tracollo subito dalle fasce più deboli, tanto che è la stessa Sindaca a doverlo ammettere.7

 

Quanti torinesi, esclusa l’euforia iniziale del ritorno alla vita, potranno e vorranno tornare al ristorante regolarmente nei prossimi mesi? 

 

Il distanziamento sociale inevitabilmente influirà sulle scelte individuali, così come i clienti non sono barman né gestori, ma stavolta c’è il rischio concreto che si facciano due conti. Che si domandino se ha senso pagare 18 euro per bere da un bicchiere che è già stato in centinaia di bocche diverse, per poi smaltirlo in un bagno unisex alla turca o coi sanitari degli anni ’90 senza tavoletta. Potrebbero persino scoprire che un Negroni fatto a casa costa circa 1,50 euro.

 

 

Ulteriore questione da non sottovalutare è la rapida e inarrestabile diffusione dello smartworking, che ha una indubbia valenza positiva di riduzione dell’inquinamento, ma da contraltare ci ritroviamo con uffici del centro e grattacieli riempiti al 20-30% rispetto al pre-COVID19. Pensate al panorama urbano di Via Lagrange o i dintorni, sempre per restare a Torino, del grattacielo IntesaSanPaolo trasformati nel recente passato in un tappeto di tavole calde: come camperanno? Cosa se ne faranno di un dehor grosso come un campo da calcio quando le tavolate da undici colleghi non esisteranno più? 

Questi dati economici ci dicono due cose, apparentemente contraddittorie tra loro e con quanto da noi scritto in precedenza: che saranno tempi non duri, ma durissimi per le attività eno-gastronomiche della nostra città. E che, oggi ancor di più, i ristoranti sono troppi, decisamente troppi rispetto alle capacità di spesa della cittadinanza.

 

Proprio per questo motivo riteniamo che regalare spazio pubblico sia doppiamente beffardo, tanto per il pedone che vuole solo passeggiare tanto per il ristoratore che rischia di dover stare a guardare la distesa di tavolini desolatamente vuoti.

 

Aiutiamo veramente, anche con un sostegno economico diretto, le famiglie di commercianti che rischiano di finire sul lastrico, e contemporaneamente apriamo gli occhi di fronte alla fragilità e alla caducità dell’economia turistica. 

 

Per questo motivo, vogliamo chiudere il nostro approfondimento con una citazione di Lucia Tozzi, autrice di “Dopo il turismo”:

 

Per farla finita con il turismo. Ma non nel senso che non andiamo al mare quest’estate: al contrario. Per farla finita con il delirio in cui siamo immersi, in cui tutto è subordinato alla turistificazione, le nostre città, gli spazi pubblici, le spiagge pubbliche, i trasporti pubblici, il sistema culturale, le strategie urbanistiche, e poi, al minimo soffio, tutto crolla. La dipendenza dall’economia turistica è una forma di fragilità assoluta, basta un attentato, un’alluvione, un’epidemia ed è catastrofe. Ma c’è un’alternativa, e la dobbiamo costruire ora, senza perdere tempo.”

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